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15 Nov

Rainer Maria Rilke: Giorno d’autunno

Giorno d’autunno

Signore: è tempo. Grande era l’arsura.
Deponi l’ombra sulle meridiane,
libera il vento sopra la pianura.

Fa’ che sia colmo ancora il frutto estremo;
concedi ancora un giorno di tepore,
che il frutto giunga a maturare, e spremi
nel grave vino l’ultimo sapore.

Chi non ha casa adesso, non l’avrà.
Chi è solo a lungo solo dovrà stare,
leggere nelle veglie, e lunghi fogli
scrivere, e incerto sulle vie tornare
dove nell’aria fluttuano le foglie.

 

Herbsttag

Herr: es ist Zeit. Der Sommer war sehr groß.
Leg deinen Schatten auf die Sonnenuhren,
und auf den Fluren laß die Winde los.
Befiehl den letzten Früchten voll zu sein;
gib ihnen noch zwei südlichere Tage,
dränge sie zur Vollendung hin und jage
die letzte Süße in den schweren Wein.
Wer jetzt kein Haus hat, baut sich keines mehr.
Wer jetzt allein ist, wird es lange bleiben,
wird wachen, lesen, lange Briefe schreiben
und wird in den Alleen hin und her
unruhig wandern, wenn die Blätter treiben.

 

 

25 Apr

You are your body. Considerazioni sul rapporto tra Io e corpo

You are Your Body

Considerazioni sul rapporto tra Io e corpo

di Christoph Helferich

Introduzione

Nel secondo capitolo di Bioenergetica del 1975, Alexander Lowen, partendo dalla nozione di energia, presenta i concetti-base del suo pensiero. Nel paragrafo Your are Your Body, tradotto in italiano come “Siete il vostro corpo”, scrive:

La bioenergetica si basa sulla semplice proposizione che ogni persona è il proprio corpo [Bioenergetics rest on the simple proposition that each person is his body]. Nessuno è nulla al di là del corpo vivente in cui ha la propria esistenza e attraverso il quale si esprime e si pone in relazione con il mondo che lo circonda. Sarebbe assurdo negare la verità di questa affermazione: sfido chiunque a citare una parte di se stesso che non faccia parte del suo corpo. La mente, lo spirito e l’anima sono aspetti di ogni corpo vivente. Un corpo morto non ha mente, ha perduto lo spirito ed è stato abbandonato dall’anima (Lowen, 1975, p. 44-5).

Il lettore è portato immediatamente ad acconsentire a queste affermazioni, tanto più che l’evocazione della morte non lascia dubbi sull’equazione tra persona e corpo. Tuttavia il discorso di Lowen, che non a caso esibisce una ingenuità di maniera [simple proposition], in verità rappresenta una grande sfida al senso comune. Infatti, a ben pensarci, noi tutti siamo in fondo convinti che il nostro Io, ovvero il nucleo stesso della nostra persona, sia ben più del nostro corpo, sia fatto di parole, pensieri, consapevolezza, e che questo Io risieda non già nel corpo intero, ma in qualche parte del cervello, sede della consapevolezza di sé.

L’identificazione tra “persona” e “Io consapevole” appare talmente ancorata nella coscienza comune, nel nostro quotidiano vivere, che non sarebbe esagerato riconoscerla come common ground della nostra stessa cultura. Ciò renderebbe il principio lowenian You are Your Body semplicistico e riduttivo. Per dirimere meglio la questione proviamo innanzitutto a vedere brevemente le principali ragioni che stanno alla base di questa identificazione tra persona e Io consapevole.

Io – la consapevolezza di sé

La prima e più importante ragione di tale identificazione sta nel rapporto strumentale col proprio corpo. Anche se il nostro vissuto del corpo in verità è molto complesso, si può senz’altro constatare che nella vita quotidiana il corpo è considerato essenzialmente come strumento per la realizzazione dei nostri obiettivi. Il corpo è percepito come se fosse al servizio dell’Io, di un Io timoniere che guida la sua nave secondo il proprio arbitrio. E se la nave poi è anche sufficientemente bella, ciò riesce anche a soddisfare i desideri narcisistici del timoniere.

La seconda ragione dell’identificazione tra Io consapevole e persona è che la nostra percezione del mondo e di noi stessi è mediata dal linguaggio. Il nostro corpo e i nostri sentimenti ci sono accessibili attraverso la mediazione delle parole che li nominano e ce li rendono presenti. Facile dunque identificare il nucleo del nostro essere con la funzione linguistica e in senso largo con i nostri processi mentali, base e medium della consapevolezza di sé, dell’Io.

La terza ragione riguarda la memoria, pilastro della nostra identità, anch’essa situata nel cervello. Anche la memoria è mediata linguisticamente, è racconto composto dai tanti racconti che plasmano il nostro senso di sé. Ripercorrendo il passato con la memoria narrativa, si prova solitamente un senso di continuità intima di sé attraverso il tempo, una specie di “Sé atemporale”, zeitloses Selbst, com’è stato chiamato (Radebold, 2010).

You are Your Body, dunque? Abbiamo elencato per sommi capi tre potenti ragioni per cui tendiamo a identificare il nostro Io, più che col nostro corpo, con la dimensione linguistico-mentale. È un’equiparazione immediata e spontanea, che identifica la base del nostro Io nel cervello, in particolare in quell’area in cui avviene la creazione del linguaggio.

Il corpo come minaccia

Ma esiste forse un più recondito motivo di scetticismo di fronte all’affermazione You are Your Body. Si tratta di una sorta di profonda diffidenza nei confronti del corpo. Viviamo solitamente in uno stato di guerra o comunque di continua preoccupazione e vigilanza sul corpo in quanto sede della nostra animalità, delle pulsioni, della sessualità e delle emozioni in generale. Per ricordare che siamo usciti dallo stato di natura basterebbe pensare al racconto biblico della cacciata dal paradiso terrestre. Siamo esseri culturali, e in un lungo percorso evolutivo abbiamo imparato a dominare la sfera affettivo-pulsionale legata alla nostra corporeità, che rimane comunque un terreno tendenzialmente pericoloso, ed esige vigilanza e controllo continuo da parte nostra. In questo senso, Socrate è stato indicato come modello culturale, come primo rappresentante storico di un individuo autonomo, indipendente e razionale, sulla base di un perfetto controllo della propria affettività (Böhme, 1988).

Se di solito riusciamo comunque a gestire la dimensione sessuale e affettiva della corporeità sufficientemente bene, più difficile ancora risulta accettare l’estraneità e la fragilità in essa insita. Per molti versi, il corpo appare come “altro da sé”, “estraneo”, fatto di ossa, carne, liquidi e altri elementi che seguono delle leggi e dei percorsi indipendenti dalla nostra conoscenza e volontà. Temiamo quest’alterità del corpo soprattutto per la sua fragilità. Il corpo in quanto natura è esposto, minacciato nella sua integrità da pericoli o da malattie anche gravi e comunque fuori dal nostro controllo.

Questo rapporto difficile con la nostra corporeità si aggrava ulteriormente di fronte alla finitudine, alla caducità e alla minaccia della morte. La consapevolezza della finitudine ci caratterizza come esseri umani, e proprio in quanto dotati di consapevolezza, ci differenzia dal mondo che ci circonda. È quella che il filosofo Gernot Böhme ha chiamato un Riss im Sein, una crepa nell’essere, segno distintivo dell’umano.

Il dualismo occidentale

Abbiamo dunque visto fin qui le ragioni che contrastano con l’iconica affermazione di Lowen You are Your Body. Sono le stesse ragioni che stanno alla base del dualismo occidentale, visione in cui l’essere umano appare come composto da due entità o dimensioni, l’anima e il corpo. Secondo tale visione, l’anima solitamente rappresenta la parte più preziosa, se non divina, dell’uomo.

È vero che questa visione oggi è frequentemente messa in discussione, ma è altrettanto vero che per millenni ha profondamente plasmato la cultura e il pensiero occidentale. Perciò è saldamente presente nel linguaggio e nell’immaginario collettivo, così come nella scienza teorica e applicata. Il paradigma dualistico è ancora presente, ad esempio, nelle scienze cognitive, che postulano una coscienza separata dal corpo e dal mondo esterno, o nella chirurgia dei trapianti, in cui il corpo umano è considerato un insieme di pezzi sostituibili a volontà: l’Io o l’anima è comunque altrove.

Considerate le attuali infinite potenzialità della tecnica, potremmo citare molti altri campi d’applicazione in cui il corpo appare come mera res extensa e perciò come puro oggetto della volontà umana. Ma fortunatamente esistono anche delle controtendenze, come l’ambito della medicina psicosomatica. La medicina psicosomatica si basa sulla profonda consapevolezza dell’intimo nesso tra sfera psichico-affettiva e dimensione corporeo-organica e considera l’organismo come unità dinamica delle due sfere nelle loro manifestazioni.

Insieme alla visione dualistica che contrappone Io e corpo, si può osservare una generale consapevolezza diffusa circa l’originaria identità tra corpo e persona. Come già accennato riguardo l’uso strumentale del corpo, sappiamo bene di avere un corpo, il cosiddetto corpo-oggetto. Ma a livello intuitivo-esistenziale sappiamo anche di essere il nostro corpo, il corpo vissuto in cui si esprime la propria personalità (vedi l’Introduzione in Helferich, 2018, IX-XIII). È soprattutto in situazioni estreme come dolori somatici o disturbi sessuali, che all’improvviso il nostro essere corpo si fa imperiosamente notare, mentre solitamente l’esperienza viva del proprio corpo, il corpo vissuto, rimane in retroscena. Perciò la maggior parte delle persone dimostra poca consapevolezza corporea, e la nostra cultura soffre di una generale “dimenticanza del corpo”.

La fenomenologia

Corpo-oggetto e corpo vissuto sono termini coniati e usati in ambito della fenomenologia, la scienza sistematica dell’esperienza soggettiva e delle sue principali strutture. La fenomenologia, che a lungo è stata considerata un sapere filosofico marginale all’ombra della filosofia analitica di stampo anglosassone, da alcuni decenni invece si è notevolmente affermata, contribuendo attivamente a una visione più ampia dell’essere umano. Ci riferiremo d’ora in avanti al pensiero di un rappresentante dell’attuale fenomenologia, Thomas Fuchs, filosofo, psichiatra e titolare della prestigiosa cattedra Karl Jaspers dell’Università di Heidelberg.

All’inizio del suo saggio programmatico “Il cervello, un organo di relazione” (Fuchs, 2010), Fuchs presenta tre tesi incisive: “Il mondo non è nella testa. Il soggetto non è nel cervello. Nel cervello non ci sono dei pensieri”. Con queste tre tesi, l’autore si oppone al paradigma dualistico, attivo nelle attuali neuroscienze cognitive. Come abbiamo già visto, si tratta di un paradigma in cui la coscienza viene intesa come rappresentazione interiore mentale di un mondo e di un Io costruito nel cervello. In questa visione, il corpo funge da macchina di supporto fisiologico dei processi mentali.

Il titolo del saggio di Fuchs invece indica già una diversa impostazione: il cervello è “organo di relazione” di un essere vivente in un concreto mondo circostante. Infatti, il concetto di essere vivente o organismo vivente è per Fuchs l’“entità primaria” (p. 16), il punto di partenza per comprendere il cervello e le sue funzioni come “organo di mediazione”. Questa mediazione avviene secondo l’autore in tre ambiti centrali: in primo luogo, mediazione tra cervello e corpo-organismo, che risultano collegati senza soluzione di continuità in processi circolari di rimandi neuronali, senso-motori ecc., inclusi i vissuti affettivi e cognitivi; in secondo luogo, mediazione tra l’organismo e mondo circostante, accoppiati in una relazione dinamica; infine, mediazione tra l’Io-persona e gli altri nella complessa dimensione dell’intersoggettività, modulata sin dalla primissima infanzia dall’esperienza corporea reciproca.

Tali mediazioni e connessioni circolari stanno anche al centro di importanti sviluppi nelle scienze cognitive degli ultimi decenni, confluiti nella cosiddetta embodied cognitive science. Secondo questo approccio, la soggettività o coscienza è incarnata (embodied) nell’attività senso-motoria dell’organismo, e radicata o situata (embedded) nell’interazione percettiva, senso-motoria, affettiva ecc. col mondo circostante. Fuchs fa l’esempio di una semplice azione strumentale come scrivere una lettera, azione in cui la mano, la carta, la penna e il cervello formano un’unità. È un’unità basata sull’intreccio dinamico e circolare tra cervello, corpo e ambiente; non possiamo separare i singoli elementi lungo un confine netto tra “dentro” e “fuori”, tre “Sé” e “non-Sé”: “Sarebbe altrettanto insensato come chiedersi se l’aria ispirata appartiene ancora al mondo esterno o già all’organismo” (p. 18).

Ricordiamo comunque che nella prospettiva fenomenologica è sempre il corpo vivente l’anello di congiunzione tra le varie dimensioni della nostra esistenza; il corpo è, con le famose parole di Maurice Merleau-Ponty, “il veicolo del nostro essere per il mondo”. All’interno di questa configurazione, il cervello è senz’altro l’organo centrale dei processi mentali, ovvero il luogo dei processi che sottendono la coscienza. Ma di per sé il cervello “non ha coscienza”, è “organo delle possibilità” (p. 24). Possibilità che possono realizzarsi solo nel processo di vita della persona nella sua interezza.

Fuchs chiude il suo saggio con la seguente domanda:

Se il soggetto non è nel cervello, allora dov’è? Io, il soggetto consapevole che fa esperienza e che agisce, non sono nel cervello, ma sempre esattamente là dov’è anche il mio corpo vivente con tutte le sue funzioni biologiche che rendono possibile e che producono i miei stati consapevoli e le mie azioni. Sono un essere vivente e incarnato, e ciò significa allo stesso tempo che non sono in un posto circoscritto ma sempre oltre il corpo, in relazione al mondo e agli altri” (p. 25).

Conclusione

Torniamo in conclusione alla citazione iniziale di Alexander Lowen. Se letta secondo la tradizione del dualismo occidentale, l’affermazione You are Your Body sembrerebbe ridurre la persona a una mera fisicità senza soggetto. Al contrario tale affermazione, se letta in una luce fenomenologica, appare pienamente convincente e lontana da una visione riduzionistica. Del resto, lo stesso Lowen parla poi espressamente del living body, del “corpo vivente” in cui una persona esiste e attraverso il quale si esprime e si relaziona col mondo.

Ancora più chiaramente, nel paragrafo seguente, Lowen a proposito del corpo afferma It is your way of being in the world, “è il nostro modo di essere nel mondo”. Quest’ultima affermazione riecheggia fortemente pensatori come Martin Heidegger e Maurice Merleau-Ponty. È come se Lowen avesse qui perspicacemente colto il nucleo della riflessione fenomenologica prima e dopo di lui. The more alive your body is, the more you are in the world – “Più il vostro corpo è vivo, più siete nel mondo” (Lowen, 1975, p. 45).

Nota clinica

Quest’ultima citazione introduce a un obiettivo centrale della psicoterapia bioenergetica. Come abbiamo visto sopra, prevale nella nostra cultura un atteggiamento strumentale verso il nostro corpo che facilmente comporta varie forme di alienazione da se stessi. Ciò significa che la familiarità col proprio corpo nonché l’attenzione ai profondi vissuti psico-corporei collegati, non sono per niente scontate; sono perciò obiettivi espliciti del processo terapeutico. Ed è stato lo stesso Alexander Lowen a sviluppare in modo esemplare un’ampia gamma di esercizi bioenergetici atti a promuovere tale consapevolezza corporea (Lowen, 1977).

In fondo si tratta di una rieducazione della percezione e dell’espressione di sé che richiede molto tempo. Tempo non solo nella pratica di esercizi da integrare nella vita quotidiana. Pensiamo qui in primo luogo ai tempi e ritmi del processo terapeutico. Facilmente il terapeuta sottovaluta il fatto che il paziente, per sentire veramente se stesso e entrare in spazi sconosciuti, ha bisogno di tempo. A livello tecnico, il terapeuta deve perciò imparare ad aspettare, a rallentare in certi momenti della seduta il ritmo dell’interazione. Sentire richiede tempo: per esplorare via via i propri vissuti, per trovare le rispettive isole corporee collegate a essi, e per farli propri identificandosi con essi. Attraverso questa identificazione con il Sé corporeo profondo, il paziente potrà infine dire “sono il mio corpo”, I am my body.

Bibliografia

Böhme G. (1988). Der Typ Sokrates. Francoforte sul Meno: Suhrkamp Verlag.

Brown M. (1990). The Healing Touch. An Introduction to Organismic Psychotherapy. Mendocina, CA-USA; trad. it. a cura di Mauro Pini, Maria Teresa Pinardi, Anna Maria Bononcini Il contatto terapeutico. Introduzione alla Psicoterapia Organismica. Tirrenia (Pisa): Edizioni del Cerro, 2007.

Fuchs T. (2010). “Das Gehirn – ein Beziehungsorgan” [“Il cervello, un organo di relazione”]. In: Information Philosophie, (5), 14-25.

Helferich C. (2018). Il corpo vissuto. La cura di sé nell’analisi bioenergetica. Roma: Alpes Italia.

Lowen A. (1975). Bioenergetics. Coward, McCann & Geoghen Inc., New York; trad. it Bioenergetica. Milano: Feltrinelli 1983.

Lowen A. e L. (1977). The Way to Vibrant Health. Harper & Row, New York; trad. it. Espansione e integrazione del corpo in Bioenergetica. Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma 1979.

Radebold H. (2010). “Können und sollen Psychoanalytikerinnen und Psychoanalytiker lebenslang behandeln?” [”Possono e devono le psicoanaliste e gli psicoanalisti curare a vita?”], in Psyche, LXIV (2), 97-121.

27 Feb

La presenza del corpo nella psicoterapia

La presenza del corpo nella psicoterapia

Il ruolo centrale del corpo per il nostro benessere generale è un principio oggi ampiamente condiviso, che sempre più si sta affermando anche nel campo della psicoterapia. Ma se questo principio è diventato quasi common ground, patrimonio comune in ambito di cura, rimane la questione di come applicarlo concretamente nella terapia. Quale posto potrebbe avere il corpo in uno spazio tradizionalmente riservato allo scambio verbale? In che cosa consiste il cosiddetto “lavoro corporeo”? Come tradurre, con altre parole, complessi problemi psichici in termini corporei?

Forse possiamo distinguere tre diverse risposte a questa domanda. La prima, e attualmente più diffusa in tutti gli approcci di psicoterapia, è l’attenzione continua, nel corso dell’incontro tra paziente e terapeuta, al vissuto corporeo di entrambi. Perché in questo incontro i corpi dei protagonisti parlano, in un fitto dialogo di gesti, sguardi, timbri della voce, ecc., l’uno all’altro, manifestando vissuti psichici spesso difficilmente afferrabili con la sola parola. Quest’attenzione continua al vissuto corporeo arricchisce e approfondisce il processo terapeutico, aggiungendo al dialogo la preziosa dimensione del non-verbale.

La seconda risposta va oltre l’attenzione continua e consiste nell’attivazione diretta del corpo nel corso di una seduta. Attraverso appositi esercizi il paziente acquista via via una maggiore consapevolezza e familiarità col proprio corpo e in particolare con il respiro, sede organismica della vita affettiva. Tali esercizi, oltre a favorire l’espressione emozionale, spesso comportano anche un effetto energetico vitalizzante, una maggiore presenza del paziente a se stesso. Gli esercizi bioenergetici aprono una porta d’accesso alla sua forza vitale, aggiungendo così un’ulteriore dimensione al processo terapeutico.

Ma esiste un’altra modalità ancora, oltre a quella dell’attenzione continua e quella dell’attivazione diretta, di includere il corpo nella terapia attraverso una sua attivazione indiretta o non-direttiva. In questa visione, si considera il corpo tout court come serbatoio, come espressione e manifestazione della storia personale del paziente, custodita nella memoria corporea. Ed è attraverso molteplici e delicate tecniche esperienziali che questo serbatoio si rende accessibile, in modo che le tematiche psichiche profonde del paziente affiorino e vengano alla luce. La tecnica di base di questo approccio al corpo è il contatto che il terapeuta dà al paziente secondo modalità definite, al fine di ottenere una attivazione organismica.

Ad esempio, in caso di avvertita rigidità negli arti inferiori – un sintomo che solitamente nasconde un vissuto di profonda paura – il terapeuta potrà dare un contatto prolungato ai vari segmenti degli arti – gambe, ginocchia, cosce, anche. Nel corso di un tale contatto, in una condizione di silenzio che agevoli un’esperienza regressiva, il paziente potrà sperimentare sia l’antica paura sottostante la sua rigidità, che la forza liberatoria di un sostegno ricevuto.

Naturalmente è impossibile e anche poco sensato voler distinguere nettamente queste tre modalità di presenza del corpo in psicoterapia; si tratta di confini fluidi che si sovrappongono. Il corpo, come è stato detto, è un “crocevia dove confluiscono occasioni” (G. Downing); terapeuta e paziente devono decidere insieme quali occasioni cogliere per la crescita di entrambi.

Christoph Helferich

Raphael Chanterou, Homme aux masques, 1930

22 Dic

Corpo e Psicoterapia al tempo della Pandemia

 

Corpo e Psicoterapia al tempo della Pandemia

Bologna, 19 dicembre 2019

Nella giornata del 19 dicembre si è svolta, in modalità online e promossa da Maurizio Stupiggia, Presidente della Società Italiana di Biosistemica, la Conferenza internazionale Corpo e Psicoterapia al tempo della Pandemia. Come scrive Stupiggia nella presentazione del Convegno, la Pandemia CoVid-19, rappresenta un’enorme sfida alla Psicoterapia e in particolare alla Psicoterapia a me

diazione corporea: con l’imprevedibile riduzione della vicinanza fisica e del contatto corporeo, la Body Psychotherapy rischia di perdere un perno centrale dei suoi fattori di cura; ma è proprio la generale deprivazione corporea che la rende strumento terapeutico indispensabile.

La Conferenza rappresenta un primo tentativo coraggioso di affrontare questa situazione nuova in un’ottica psico-corporea, tentativo, bisogna riconoscere, pienamente riuscito e ad altissimo livello scientifico e umano. Purtroppo non possiamo soffermarci qui suoi singoli contributi degli ospiti internazionali e italiani (Li Wentian, China; Ozdem Bedemci, Turchia; Gabriel Graca de Oliviera e Ruben Kignel, Brasile; Stephen Porges, Stati Uniti; Umberto Galimberti, Vittorio Galese, Corrado Sinigaglia, Giovanni Stanghellini e Maurizio Biondi). I relatori da un lato hanno dato un’ampia testimonianza del nuovo trauma collettivo nelle varie parti del mondo. Dall’altro lato, in uno sguardo strutturale, hanno indagato sull’effetto duplice del trauma tra invasione e deprivazione, nel contesto globale di un mondo progressivamente medializzato.

Come filo rosso dei contributi è emerso il ruolo centrale del corpo nei suoi molteplici significati, tra estrema fragilità e innato desi

derio di vicinanza. In questo senso, e nonostante la fatica di passare un’intera giornata davanti a uno schermo, la Conferenza è stata un crescendo di presentazioni e relazioni stimolanti, che hanno trovato il loro culmine nelle ultime due relazioni di Stephen Porges, il fondatore della Teoria Polivagale (“Psicoterapia corporea al tempo del Coronavirus”) e quella di Massimo Biondi, il più noto psichiatra esperto di Psicosomatica in Italia (“L’imprevedibile e l’imprendibile: corpo e resilienza”). Massimo Biondi è stato presentato dalla Chair Patrizia Moselli, la Presidente della Società Italiana di Analisi bioenergetica (SIAB), che in questo modo ha dato voce all’analisi bioenergetica durante il Convegno.

A proposito della resilienza, la nostra forza di affrontare situazioni anche estreme come quella attuale, concludiamo con una slide dalla relazione di Massimo Biondi, slide che merita molte riflessioni.

04 Nov

Lev Tolstòj: La morte di Ivàn Il’íč

Lev Tolstòj: La morte di Ivàn Il’íč

Casualmente ho riletto, dopo molto tempo, il racconto di Tolstòj La morte di Ivàn Il’íč (1868)1, e sono nuovamente rimasto colpito dall’intensità e profondità di questo racconto, a ragione uno dei testi più famosi della letteratura moderna. Il racconto parla della vita di Ivàn Il’íč, giudice della Corte d’assise di Pietroburgo, che nel pieno della sua esistenza, all’età di 45 anni, viene colpito da una malattia misteriosa che nel giro di poco tempo lo porta alla morte.

La descrizione di questa vicenda inevitabilmente tocca il lettore a livello esistenziale e suscita anche molti interrogativi sul nostro ruolo e intervento come psicoterapeuti. Sarebbe utile addentrarci perciò in un’ampia e approfondita analisi, ma soffermiamoci qui su tre punti focali con cui il racconto ci confronta: la questione dell’autenticità, la narrazione di sé come fonte della nostra identità, e infine l’importanza del contatto fisico come ponte salvifico tra le persone.

Autenticità

Ai corsi di giurisprudenza egli era già perfettamente uguale a quel che in seguito sarebbe stato per tutta la vita: un uomo abile, socievole e pieno di allegra bonarietà, ma capace di svolgere con serietà quello che riteneva fosse suo dovere; e riteneva fosse suo dovere tutto quello che veniva ritenuto tale dalle persone altolocate (p. 14).

Da questa descrizione del giovane studente universitario si evince subito come tratto caratteristico l’ingenuo conformismo di questo personaggio e del suo stile di vita. Infatti, il narratore non si stanca di sottolineare la conformità del suo comportamento con le norme sociali e le aspettative dell’ambiente circostante. Ivàn si comporta perfettamente comme il faut ovvero del tutto “a modo”, conducendo così una vita “liete, piacevole, decorosa” (29). Ciò vale per la sua attività professionale come giudice, un ruolo che sa gestire abilmente e con la dovuta separazione tra rapporti di lavoro e rapporti personali. E ciò vale anche per la sua vita privata, in primo luogo per il suo matrimonio, che nonostante numerose difficoltà con sua moglie riesce a portare avanti creandosi ampi spazi di distanza e di libertà.

In ultima analisi, la vita di Ivàn Il’íč si svolge in quella modalità che Martin Heidegger in Essere e Tempo (1927) descriverà col concetto di Uneigentlichkeit, di in-autenticità. “In-autenticità” indica un comportamento generale appoggiato sulle convenzioni sociali e alleviato perciò dalle responsabilità che ogni vera scelta personale comporta: “gli altri” ci hanno già pensato. La presa di consapevolezza della morte, invece, è per Heidegger l’evento chiave che costringe ognuno singolo ad assumersi la responsabilità della propria vita e delle scelte che sono state fatte e non fatte. La presa di consapevolezza della morte è l’evento privilegiato per aprire lo spazio dell’autenticità (Eigentlichkeit).

Ed è esattamente ciò che avviene nel racconto. L’avvicinarsi della propria morte rivela in maniera crescente l’insopportabile menzogna collettiva intorno alla malattia, “quella menzogna, chissà perché data vera da tutti, secondo la quale lui era soltanto malato, e non stava morendo, e che dovesse soltanto stare tranquillo e curarsi, e allora tutto sarebbe andato per il meglio” (p. 52). Ma allo stesso tempo, il protagonista si rende conto che anche lui nella sua vita professionale si è comportato in questo modo. “In loro vedeva se stesso”: esattamente come i dottori illustri che lo curano senza interessarsi a lui come persona, anche lui nella veste di giudice ha recitato il suo ruolo in maniera auto-compiaciuta, con indifferenza e senza partecipazione.

Di fronte a questa menzogna collettiva, nella condizione di estrema solitudine, le ultime due settimane di vita comportano per il protagonista, oltre alla sofferenza fisica, anche crescenti “sofferenze morali” (p. 69). Comincia a sorgere in lui una domanda inquietante: «“Forse non ho vissuto come avrei dovuto”, gli veniva improvvisamente in mente» (p. 64). Questa domanda, portatagli dalla “voce dell’anima” e prima “inammissibile”, si fa sempre più pressante, per arrivare alla convinzione che «”Si, tutto è stato come non avrebbe dovuto essere”, si disse, “ma non importa. Si può, si può fare come dovrebbe essere. Ma come dovrebbe essere?” si domandò, e improvvisamente tacque» (p. 72).

È interessante notare che il racconto non fornisce una risposta esplicita su come la vita di Ivàn Il’íč sarebbe dovuta essere, ovvero in che cosa consisterebbe quella che la tradizione filosofica chiama una vita buona.2 Ma è proprio in questo modo che la ricerca della risposta viene rimandata al lettore stesso. Il lettore, empatizzando con il protagonista e rivedendosi in lui, all’improvviso si trova confrontato con la domanda inquietante dell’autenticità o meno della propria vita. Sta lì, nella maestria con cui Tolstòj riesce a portare il lettore esattamente a questo punto, la ragione del grande impatto esistenziale del racconto di cui sopra parlavamo.

Narrare se stessi

Ben intrecciato nella ricerca del senso della vita troviamo il secondo argomento su cui vogliamo soffermarci, la struttura narrativa della nostra identità. Tutte le teorie della narrazione, da Paul Ricoeur in poi, concordano nella convinzione che l’uomo è “un animale che racconta storie” (A. MacIntire). Infatti la nostra identità si compone in gran parte di tutte le storie collettive e personali che incessantemente ci vengono raccontate e che incessantemente raccontiamo a noi stessi. Narrare è un atto attivo, creativo (poiesis), un processo di continua re-figurazione degli eventi e del loro senso. Ciò vale in particolare se creiamo una sintesi narrativa di episodi di più lunga durata, larger-scale actions (D. Carr), come certi periodi o eventi della vita ritenuti significativi, o se guardiamo la vita nella sua interezza. Ed esattamente ciò succede a Ivàn Il’íč:

Vivere? Come vivere?”, domandò la voce dell’anima. “Sì, vivere come vivevo prima: bene, piacevolmente”. “Come vivevi prima, bene e piacevolmente?” domandò la voce. Ed egli si mise a ripercorrere nell’immaginazione i momenti migliori della sua vita piacevole. Ma, cosa strana, adesso gli apparivano completamente diversi da come erano apparsi allora, Tutti, a eccezione dei primi ricordi dell’infanzia. Là, nell’infanzia, c’era qualcosa di effettivamente piacevole, con la quale sarebbe stato possibile vivere se fosse ritornato a lui. Ma l’uomo che aveva sperimentato quel piacere ormai non esisteva più: era come il ricordo di qualcun altro. Non appena aveva inizio quel processo che poi era sfociato in ciò che lui era in quel momento, l’Ivàn Il’íč di adesso, tutte quelle cose che un tempo gli erano sembrate fonte di gioia prendevano ora a disfarsi sotto i suoi occhi, e a tramutarsi in un che d’insignificante e spesso ripugnante (p. 63-64).

Solitamente siamo abituati, ponderando e rivisitando gli eventi della nostra vita, a tingerli in un’aura teleologica, a vederli come un processo essenzialmente sensato e direzionato e culminante nella persona che oggi siamo. Narrare solitamente è “trasformare contingenze in eventi dotati di senso”.3 In questo senso, “una parte significativa dell’esperienza e della comprensione di sé è basata sulle narrazioni di sé, un processo continuo di creare formulazioni coerenti circa chi sono, chi sono stato, e dove vado”.4

Vediamo nel brano citato che anche Ivàn Il’íč è impegnato in questo processo auto-narrativo, in un’indagine sulla propria storia. Ma i risultati di questa indagine, sorprendentemente per il protagonista stesso, sono del tutto negativi. Tutto il sistema di credenze di Ivàn, le sue ferme convinzioni riguardo la sua vita piacevole e decorosa, si sbriciolano. Nel processo di presa di consapevolezza esistenziale, anche la narrazione consueta di se stesso si ribalta tramutandosi “in un che d’insignificante e spesso ripugnante”.

Vediamo che anche nel caso della narrazione autobiografica, la maestria di Tolstòj porta il lettore davanti a un quesito piuttosto inquietante. Come abbiamo visto, “tendiamo a costituire la nostra esperienza e la nostra identità attraverso auto-narrazioni”.5 Ma, come giustamente osserva il filosofo Charles Taylor, these formulations can be right or wrong:6 non c’è nessuna garanzia che l’immagine che ho di me stesso o che sono abituato a far apparire al mondo corrisponda effettivamente alla verità! Questa “complessa dialettica tra essere e apparire”, com’è stata chiamata, la possibilità di una verità nascosta allo stesso soggetto, rappresenta la maggiore difficoltà nella nostra ricerca di verità e autenticità. Rivela infatti the fragile nature of personhood, la fragilità insita nell’essere una persona.7

Contatto

Com’è possibile che Tolstòj riesca a tessere un “lieto fine” del suo racconto, a rimediare alla drammatica imminenza della fine, in modo tale che il protagonista possa riconciliarsi con la sua esistenza ed esclamare alla fine che “Al posto della morte c’era la luce” (p. 73)? Sintetizzando notevolmente, si può forse dire che è attraverso il contatto empatico che il protagonista alla fine riesce ad arrivare a questa riconciliazione con sé e col mondo. La figura di Gerasim, un giovane servo della famiglia “sempre sereno e allegro”, unisce i due momenti dell’empatia e del contatto. È l’unica persona a provare compassione di Ivàn Il’íč, a non nascondere la verità della sua malattia e a parlare apertamente con lui; è una persona autentica. E Gerasim è l’unico a stabilire un contatto fisico con il moribondo, sollevando spesso per ore e ore, anche di notte, le gambe del suo padrone per dargli sollievo dal suo dolore.

Ciò viene incontro al desiderio nascosto di Ivàn – “per quanto si vergognasse a riconoscerlo” (p. 53) – di essere compatito, accarezzato , “che ci fosse qualcuno a cui spiacesse per lui, perché era malato, così come ci si dispiace per un bimbo malato” (pp. 53-54). Infatti, come abbiamo visto nella citazione riguardo la narrazione autobiografica, rimangono per il protagonista intatti “i primi ricordi dell’infanzia”, testimoni di affetti, vissuti e relazione autentici: “E più si andava all’indietro, più si trovava vita” (p. 67).

Oltre a Gerasim è Vasja, il giovane figlio, a provare pietà e compassione per il padre. Nel rapporto con Vasja, proprio nell’ultima scena del racconto, vediamo il significato del contatto ancora esaltato:

Questo avvenne alla fine del terzo giorno, un’ora prima della sua morte. In quello stesso istante il ginnasiale piano piano penetrò nella stanza del padre, e si avvicinò al suo letto. Il moribondo continuava a gridare disperatamente e ad agitare le mani. La sua mano andò a finire sulla testa del ginnasiale. Il ginnasiale la afferrò, se la portò alle labbra e si mise a piangere.

In quello stesso istante Ivàn Il’íč sprofondo, vide la luce, e gli si rilevò che la sua vita non era stata come avrebbe dovuto essere, ma che vi si poteva ancora porre rimedio” (p. 72).

Nota clinica

Autenticità, narrazione, contatto – è evidente quanto ognuno di questi aspetti ovvero quanto l’intero racconto di Tolstòj debba coinvolgere, a livello personale non meno che a livello professionale, chi di noi lavora come psicoterapeuta. Un elemento che si evince molto bene nella storia è l’eterno sospetto del paziente che il terapeuta rimanga troppo protetto dalla propria funzione professionale, e che perciò, come gli illustri dottori durante le loro visite, si limiti a recitare un ruolo anziché partecipare veramente e in prima persona al suo vissuto. Ci vengono in mente soprattutto certi pazienti che spesso si lamentano della loro solitudine. Per quanto questi peana possano apparire sterili e ripetitivi, vanno comunque accolti con la massima apertura e disponibilità, visto che dietro ai lamenti della solitudine facilmente si cela l’angoscia della morte di queste persone, l’angoscia di dover morire e di dover morire da soli. Il terapeuta dovrebbe in questi casi procedere con fiducia e coraggio; non deve riproporre anche lui la menzogna collettiva della rimozione, del tabù della morte.

Qualcosa di simile vale per le narrazioni del paziente. Roy Schafer ha descritto lo psicoanalista come persona “che ascolta le narrazioni dei pazienti, aiutandoli a trasformarle in narrazioni diverse e più complete, coerenti, convincenti e più utili adattivamente che non quelle che sono abituati a costruire”.8 Anche riguardo le narrazioni del paziente, ci è richiesta in primo luogo la massima apertura e disponibilità di partecipazione ai loro vissuti. Nel processo di lavoro con questi racconti, il terapeuta facilmente cede alla tentazione di offrire prematuramente delle soluzioni “positive” o troppo facili, soluzioni che il paziente non può o non è pronto ad accettare. Pensiamo qui soprattutto a pazienti con un disturbo narcisistico che si costruiscono dei racconti di sé auto-compiaciuti, troppo “coerenti”, con le parole di Schafer. Ma proprio come il protagonista del racconto, anche questo tipo di pazienti ha bisogno di sentirsi autenticamente preso sul serio nelle proprie difficoltà. E, come noto, la sensazione stessa di sentirsi veramente ascoltati con le proprie difese e difficoltà spesso apre la strada al loro superamento.

Il contatto corporeo come viene usato nell’analisi bioenergetica rappresenta senz’altro un mezzo potente in questi processi di guarigione, non per ultimo per le qualità regressive di cui dispone. I nostri primi vissuti al mondo sono stati vissuti di contatto, e nel racconto si evince bene quanto il contatto possa venire incontro ai bisogni sepolti del bambino interiore, bisogni che il paziente adulto si vergognerebbe di ammettere. Aver intuito questo nesso tra il contatto fisico umano come e la via d’uscita dall’angoscia della morte, è uno dei grandi meriti di questo straordinario- racconto di Tolstòj.

Christoph Helferich

1Lev Tolstòj: La morte di Ivàn Il’íč e altri racconti. A cura di Igor Sibaldi, trad. it. di Serena Prina, Mondadori: Milano 1999, pp. 1-74.

2Christoph Helferich: La “vita buona”. La ricerca esistenziale tra filosofia e psicoterapia corporea. Roma: Armando Editore 2004.

3Norbert Meuter: Narrative Identität. Stuttgart: J. B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung 1995, p. 255.

4René Rosfort e Giovanni Stanghellini: “The Person in Between Moods and Affects”. In: Philosophy, Psychiatry, & Psychology, Vol. 16, n° 3, September 2009, pp. 251-266, qui a p. 261.

5Ibid., p. 262.

6Charles Taylor, “The concept of a person”. In: Human agency and language. Philosophical papers. Vol. 1, ed. C. Taylor, Cambridge: Cambridge University Press 1985, pp. 97-114; cit. in Rosfort e Stanghellini (vedi nota 4), p. 252.

7Rosfort e Stanghellini, ibid., p. 262.

8Cit. in Meuter, p. 249.

16 Ott

Louise Glück: Nostos

Louise Glück, Nostos

Pubblichiamo una poesia della vincitrice del Nobel per la Letteratura di quest’anno, la poetessa statunitense Louise Glück.
Il testo originale finisce con i bellissimi versi:
We look at the world once, in childhood. /The rest is memory.

 

In giardino c’era un melo –
e questo sarebbe
quaranta anni fa – dietro,
solo prati. Macchie di crochi
nell’erba umida.
Io stavo alla finestra:
fine aprile. Fiori primaverili
nel giardino del vicino.
Quante volte, davvero, quell’albero è fiorito
per il mio compleanno?
Proprio quel giorno, voglio dire,
non prima e non dopo? L’immutabile
che prende il posto di ciò che muta,
che evolve.
L’immagine che prende il posto
della terra inesorabile. Cosa so
di questo luogo,
il ruolo dell’albero per decenni
preso adesso da un bonsai, delle voci
che si levano dai campi da tennis –
Campi. Il profumo dell’erba alta, appena tagliata.
Quello che ci si aspetta da un poeta lirico, d’altra parte.
Guardiamo il mondo una volta sola, nell’infanzia.
Il resto è ricordo.

(trad. it. di Massimo Gezzi)

05 Ott

Recensione: Il Sé cerca il corpo. Manuale di tecniche per l’analisi bioenergetica

Il Sé cerca il corpo

Manuale di tecniche per l’analisi bioenergetica.

Di Vincentia Schroeter e Barbara Thomson

Edizione italiana a cura di Maria Rosaria Filoni

È con grance piacere che presentiamo il nuovo volume appena pubblicato dalla prestigiosa casa editrice FrancoAngeli, Il Sé cerca il corpo. Manuale di tecniche per l’analisi bioenergetica. Con questo manuale Maria Rosaria Filoni, la traduttrice e curatrice dell’edizione italiana, in molti anni di instancabile lavoro ha reso accessibile al lettore italiano un vero e proprio tesoro, una documentazione accurata ed esaustiva delle tecniche di lavoro bioenergetico, a cui tutti possiamo attingere con grande profitto. Il Sé cerca il corpo è la traduzione italiana del volume Bend into Shape. Tecniques for Bioenergetic Therapists di Vincentia Schroeter e Barbara Thomson, due psicoterapeute bioenergetiche di spicco dell’area californiana degli Stati Uniti. Uscito originariamente nel 2011, Bend into Shape nel frattempo è già arrivato alla seconda edizione.

La scelta felice del titolo italiano, Il Sé cerca il corpo, fa intuire che questo manuale non è un semplice repertorio di esercizi bioenergetici e anzi va ben al di là dell’aspetto tecnico del nostro lavoro. Vediamo di seguito, attraverso una breve descrizione della sua composizione, di che cosa si tratta.

Nella prima parte vengono presentate Le basi del lavoro bioenergetico con il paziente, ovvero gli aspetti etici negli interventi, il rapporto tra energia e tecniche in Wilhelm Reich e Alexander Lowen, e infine l’assessment, la valutazione in bioenergetica attraverso la lettura del corpo, le posizioni di stress e non per ultimo attraverso le tecniche relazionali di valutazione.

Nella seconda parte, la parte centrale del volume, si presentano Le tecniche secondo i tipi caratteriali (strutture schizoide, orale, borderline, narcisista, masochista e rigida; su questa particolare impostazione caratterologica si veda la Introduzione all’edizione italiana della curatrice). Colpisce subito l’accuratezza con cui le autrici si soffermano sulla specificità di ogni tipo caratteriale, dall’eziologia alle dinamiche di transfert e controtransfert, dagli tipici schemi di contrazione muscolare a fenomeni come l’energia, il grounding, la relazionalità, l’espressione di sé e la sessualità. Troviamo per ognuno di questi aspetti una serie di proposte esperienziali, spesso accompagnate da utili illustrazioni grafiche, che vanno da semplici esercizi da fare individualmente a esperienze di grande portata emozionale e relazionale. Ci sono del resto anche delle precise avvertenze ricorrenti tipo Nota, Cose a cui prestare attenzione, Cautele, in caso di possibili problematiche insite nel lavoro con un determinato argomento o con una determinata proposta.

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La terza parte del libro sviluppa – sempre in forma di proposte esperienziali – Riflessioni particolari su due ambiti diversi. Il primo ambito comprende problemi specifici come il trauma, la vergogna, l’abuso e l’ansia, argomenti che vengono introdotti e “tradotti” in forma di proposte esperienziali con grande sensibilità e cautela. L’altro ambito di queste riflessioni particolari è dedicato al trattamento di disturbi specifici come il comportamento alimentare, il dolore cronico e le dipendenze chimiche, nonché il lavoro con particolari gruppi di persone (special populations, nell’originale) come i bambini, gli esercizi con gli anziani e il lavoro bioenergetico con le coppie.

La quarta parte del libro, infine, contiene un ampio e prezioso capitolo dedicato alle Tecniche per segmenti corporei: il segmento oculare, orale, cervicale, toracico, diaframmatico, addominale e pelvico. Segue in conclusione un altrettanto prezioso capitolo di Tecniche per problemi emotivi, tecniche per “caricare, contenere e scaricare gli affetti”. Le emozioni affrontati in questo capitolo sono depressione, tristezza, dolore, paura, orrore, rabbia, frustrazione e desiderio.

Speriamo di aver dato, attraverso la descrizione per sommi capi della struttura del libro, un’idea dell’enorme ricchezza di esercizi e tecniche che il libro presenta. Tale ricchezza invita a una riflessione conclusiva.

L’utilizzo di esercizi e tecniche nel lavoro terapeutico è senz’altro un tratto caratteristico dell’analisi bioenergetica, basato sul “grande contributo di Reich, in seguito ampliato da Lowen, che personalità simili hanno simili corpi” (p. 67). Intorno a questa intuizione si è sviluppato, nel corso dei decenni, un enorme patrimonio collettivo di tecniche, di cui molte risalenti alla creatività dello stesso Alexander Lowen. Tante altre tecniche, comunque, sono nate all’interno del grande collettivo bioenergetico, “sono passate di generazione in generazione e se n’è persa l’origine” (p. 20). L’enorme valore di questo volume sta nella raccolta e presentazione sistematica di questo patrimonio di tecniche di cui possiamo davvero essere orgogliosi. E dobbiamo essere grati a Rosaria Filoni di avere reso accessibile questo prezioso patrimonio alla comunità bioenergetica italiana.

Vincentia Schroeter e Barbara Thomson: Il Sé cerca il corpo. Manuale di tecniche per l’analisi bioenergetica. Edizione italiana a cura di Maria Rosaria Filoni, pp. 438, Milano: FrancoAngeli 2020.

Christoph Helferich

Dott. Christoph Helferich
Psicologo Psicoterapeuta
Analista bioenergetico
Supervisore e Didatta della Società Italiana di Analisi Bioenergetica (S.I.A.B.).

Studi: Via G. C. Vanini 11,
50129 Firenze.
Via A. M. Enriques Agnoletti 50, 50012 Bagno a Ripoli (Firenze Sud).

tel. 333 468 9183
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